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L’altro esercito di cinque uomini, Ayer firma un’opera potente

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Ci sono film che sembrano flirtare pericolosamente con le ideologie, per giunta sorpassate. S’inscrive di diritto nella categoria la recente fatica del virtuoso David Ayer (Harsh Times, La notte non aspetta, End of Watch e l’inedito in sala Sabotage), uno che indubbiamente sa dominare un racconto cinematografico. In questa cruda cronaca degli ultimi sgoccioli della Seconda Guerra Mondiale, nella fase di penetrazione in Germania da parte degli americani per sedare le disperate e viepiù pericolose resistenze naziste, seguiamo una pattuglia di valorosi asserragliata all’interno del suo carro armato, che come viene sottolineato assurge al ruolo di casa – e di nazione – dei protagonisti. Ai comandi di un ruvido e premuroso sergente (un Pitt che pare addirittura indossare la stessa divisa di Bastardi senza gloria) ci sono, ognuno con il suo bravo soprannome, un pio puntatore (LaBeouf), un coriaceo tecnico (Bernthal) e un abile pilota di origine messicana (Peña); a sostituire il mitragliatore, orrendamente eliminato, è chiamato un giovane e timido dattilografo (Lerman), praticamente una burba contraria a uccidere. Ma i nobili intenti nel mezzo dei conflitti sono destinati a soccombere, ed è ciò che intende insegnargli fin da subito il suo superiore.
Un sentimento di amaro ancorché orgoglioso patriottismo pervade la narrazione, e appunto contamina presto (forse troppo) il personaggio più debole, che si trasforma in uno spaventato killer urlante (di quelli che insultano il nemico mentre gli sparano). Uno squilibrio, probabilmente, al quale nondimeno si giunge dimostrando che a prevalere, in battaglia, è l’istinto di sopravvivenza, la volontà di salvare se stessi e i propri compagni quando intorno avviene una carneficina di cui non si è direttamente responsabili (almeno fino all’ultimo atto, ma lì entra in gioco uno spirito di sacrificio che in qualche modo invoca l’auto-dissolvenza). Insomma, lo scontro bellico inaridisce, corrompe, provoca mut(il)azioni inarrestabili e mostruose perfino nelle sue evidenti battute finali. Accettata tale sostanziale condanna (un aspetto non così nascosto), è sulle dinamiche umane, romanzate quel tanto che basta eppure credibili, che possiamo concentrarci. E il meccanismo, analogamente a ciò che accade in Platoon, funziona. Perfino nel lasciar intendere, in una pausa che prefigura – restando in bilico – altri mondi possibili, che amare sarebbe ancora una scelta praticabile.
In fondo, al netto dell’adeguamento dei tempi (che significa più esplosioni e più sangue), Fury è una pellicola intrisa di classicismo, al limite della maniera. Non era una lezione di John Ford?
Fury (id., USA/GB/Cina, 2014) di David Ayer con Brad Pitt, Logan Lerman, Shia LaBeouf, Michael Peña, Jon Bernthal

Di Massimo Arciresi

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KKKKK
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