Rubrica

Il racconto di nonna Giovanna del povero pescatore e il barone Cutrera Carcadè di Sicilia…

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E quannu trovi u curaggiu ri cuntari, a to storia, tuttu cancia. Pirchì no mumentu stissu ca cunti si fa cuntu, u scuru si fa luci e a luci ti mustra na strata.

E ora tu u sai, u puostu cauru, u puostu a sud si propiu tu… (E quando trovi il coraggio di raccontarla, la tua storia, tutto cambia. Perché nel momento stesso in cui la vita si fa racconto, il buio si fa luce e la luce ti indica una strada. E adesso lo sai, il posto caldo, il posto al sud sei tu).

Nelle serate d’inverno era di consuetudine che io e mio cugino Salvatore Camillieri andavamo da mia nonna Giovanna a farle un po’ di compagnia e di ricambio lei ci deliziava con i suoi racconti intorno alla conca piena di carbone acceso.

La nonna viveva da sola nel quartiere del Carmine un rione di modeste abitazioni e di umili abitanti, ma la compostezza e la gentilezza distinguevano gli abitanti di quel posto da tutti gli altri quartieri.

L’ospitalità dei Siciliani sin dai tempi più remoti è risaputa e documentata sicuramente da un retaggio culturale risalente alla dominazione greca in Sicilia.

Sappiamo bene che per i Greci “la xenia” (ospitalità in greco antico) era un’azione sacra poiché per loro consisteva nel rispetto reciproco tra ospitante e ospite e nel soddisfare al meglio il proprio ospite (cibarlo, lavarlo e dargli vestiti puliti). Nel momento del “commiato”, l’ospitante dava un regalo all’ospite.

Questo perché i Greci credevano che in un qualsiasi ospite, ricco o mendicante, si potesse “nascondere” un dio sotto le spoglie di uomo per attestare l’ospitalità del padrone di casa. Nel caso in cui l’ospite fosse stato trattato male, gli dei si sarebbero accaniti contro la famiglia dell’ospitante.

Ecco in quel rione del Carmine a Ragusa vi era sicuramente l’ultimo retaggio culturale della Grecia antica sull’accoglienza in Sicilia… tutti proprio tutti dimostravano una calorosa accoglienza e una propensione ad aprire la propria dimora a qualsiasi avventore o vicino.

In casa di mia nonna si notava questa propensione all’accoglienza tanto che la porta dell’uscio doveva restare categoricamente socchiusa e dare a chi volesse l’opportunità di entrare senza bussare…

E fu così che anche quel 12 gennaio del 1967 intorno alla conca oltre a me e mio cugino anche altri ragazzini del rione e due amiche della nonna “la Marianna e la Concetta” la nonna Giovanna diede il meglio dei suoi tanti racconti; ci deliziò con il racconto del povero pescatore Alfio e del Barone Cutrera di Carcadè.

Chistu cari miei è u Cuntu delli Cunti stati tutti zitti e nu sciatati forti ca chiddu ca vi cuntu e tuttu veru, putissi u Signuri fammi morriri ora se nun’evveru (Questo cari miei è il racconto dei racconti rimanete in silenzio senza fiatare forte perché quello che vi racconto è tutto vero, potesse il Signore farmi morire se tutto ciò non fosse vero).

Davanti ai nostri sguardi incuriositi la nonna iniziò il racconto… Il mare, quell’anno, non era stato buono: la barca con la quale ogni mattina all’alba il Povero Pescatore Alfio partiva per la pesca era stata sbattuta su uno scoglio durante una tempesta mentre entrava nel piccolo porto. Ed era andata distrutta. L’uomo si era salvato miracolosamente. Ma la sua famigliola temeva la fame dell’inverno.

Sotto le insistenze della moglie, il povero Alfio pensò di affidarsi alla magnanimità del Barone Cutrera di Carcadè, la cui fama di saggezza e generosità valicava i confini del Paese.

Sua eccellenza il barone aveva ascoltato in silenzio il triste racconto e si era impietosito per la sorte dei tre piccoli e della moglie di Alfio, che per ciò che era accaduto non avevano di che mangiare. Alla fine, il barone aveva concesso al Povero Pescatore un prestito avvertendolo: «Tra un anno, quando sbocceranno i fiori della primavera e l’aria sarà dolce di profumi, ti aspetterò nel salone del mio palazzo e mi riporterai il dovuto. Non voglio speculare: mi basta quanto ti ho dato, nessun soldo in più. Ricordati che per me gli impegni sono sacri. Non tollererò ritardi. Voglio la tua parola».

Il Povero Alfio, commosso, si era inchinato e gli aveva dato la sua parola. Poi aveva ringraziato, benedicendolo per la sua bontà.

A primavera, come d’accordo, il Povero Alfio si era ripresentato dal barone Cutrera. Aveva il viso triste e contrito. Con la nuova barca che aveva potuto acquistare grazie ai soldi ricevuti in prestito aveva buttato le reti al largo ogni giorno di buon tempo, ma il destino non era stato favorevole: pochi pesci e troppe giornate di mare agitato gli avevano impedito di prendere il largo. La famiglia del Povero Pescatore aveva potuto sfamarsi, ma i soldi ricavati dalla vendita del pesce non erano stati sufficienti per ricostituire la somma del prestito.

«Sono mortificato, sua eccellenza, ma ciò che posso restituirle è pari solo alla metà di quanto le devo. I Santi e a Bedda Matri (La Madonna bella) e u Signuruzzu  (il Signore)non mi hanno aiutato e la sorte mi è stata nemica. Solo su di Lei posso contare e di ciò non finirò mai di ringraziarla. La prego di pazientare. Tutti conosciamo la sua nobiltà d’animo, concedetemi ancora un anno e tornerò con i soldi che le devo e ancora di più».

Il Barone chiamò i suoi uomini più fidati (dei mafiosi al soldo del capo mafia Turiddu Ciolla) per fare uccidere a colpi di lupara il malcapitato pescatore…

«Ti avevo messo in guardia, Pescatore. Non sopporto che mi si manchi di parola. Considero questo un affronto che va lavato col sangue».

Il Povero Alfio chinò il capo.

«Ha ragione, sua eccellenza. La sua ira è giustificata. Ma l’ultima cosa che io vorrei fare è mancarla di rispetto. Nonostante mia moglie ed io abbiamo risparmiato sul nostro cibo, non ce l’ho fatta a raccogliere l’intero debito. Se vuole colpirmi con la lupara, faccia pure. Ma attenda che l’ira sia svanita. Anch’io da giovane imparai l’arte delle armi da fuoco e ricordo l’insegnamento del mio maestro: mai usare il fucile sotto l’effetto dell’ira.»

Il Barone fissò in viso intensamente il Povero Pescatore per oltre un minuto. Il Povero Pescatore non abbassò gli occhi. Il silenzio, nel salone, sembrava interminabile.

Quindi il Barone Cutrera ordinò ai due “Picciotti) (giovani mafiosi) di lasciare cadere a terra la lupara passandosi una mano sulla fronte, come per scacciare definitivamente l’ultimo cattivo pensiero.

«Aveva ragione il tuo maestro, Pescatore. Anch’io ho ricevuto un simile insegnamento. Ma come vedi me ne stavo dimenticando. Forse non sono così saggio come dicono. E ho avuto bisogno che tu mi ricordassi il comportamento giusto. D’accordo. Ti darò l’anno che mi chiedi. Però ricorda che non ammetto altre eccezioni. Se non mi salderai il debito, userò la lupara».

Il Povero Pescatore, rinfrancato per la proroga, riprese la strada del ritorno.

Un mese dopo il Barone Cutrera partì per un lungo viaggio e lasciò a casa la moglie e la madre.

Rientrò in città dopo una settimana, a tarda notte. Scivolò dentro il palazzo in silenzio, per non svegliare moglie e madre. Salì le scale del primo piano in punta di piedi. Si infilò nella camera da letto senza sollevare il minimo rumore. Tutto era avvolto nell’oscurità. Solo una falce di luna, attraverso la finestra, mandava un chiarore argenteo, che colpiva il letto matrimoniale.

Fu allora che il Cutrera vide.

Non credette ai suoi occhi, cercò di aguzzare la vista. Ma non vi erano possibili dubbi: nel letto, oltre alla moglie, dormiva un uomo. Con abiti eleganti degni di un Barone come Lui.

Fu assalito dalla gelosia, il sangue gli salì alla testa, prese subito la lupara appoggiata vicino al letto matrimoniale, la caricò trattenendo il fiato, si avvicinò al letto. Stava per premere il grilletto sui due corpi, della moglie e dell’uomo.

Poi, ricordò le parole di Alfio il Pescatore: «Mai colpire sotto l’effetto dell’ira».

Si trattenne. Inspirò ed espirò profondamente più volte. Raggiunse la calma. Allora, deliberatamente, batté i piedi sul pavimento, producendo un forte tramestio. Di colpo, i due corpi sul letto si mossero. La moglie e l’uomo, spaventati, si svegliarono: urlando e tremando. Il Barone, sempre con la lupara carica ma abbassata, si rivolse all’uomo, intimandogli di presentarsi.

L’uomo si tolse i vestiti da gentiluomo simile in tutto ad un Barone: era sua madre… Donna Filumena Martorana baronessa di Recalmuto.

Le due donne riconobbero il marito e il figlio e si strinsero felici. «Che significa tutto questo?», chiese stupito il Cutrera. «Stavo per uccidervi…»

La moglie saltò fuori dal letto e si buttò tra le braccia del marito.

Avevamo paura dei Briganti, spiegò. «Così ho chiesto a tua madre di venire a letto con me e di indossare il tuo vestito da Barone. Se fossero venuti, avrebbero creduto che fossi tu in casa e non avrebbero osato assalirci.»

Passò l’anno, giunse la primavera con i mandorli in fiori e i dolci profumi, e il Povero Pescatore si presentò al Barone.

Era raggiante. «La fortuna mi ha benedetto, sua eccellenza. Ho avuto un’ottima annata, il mare è stato finalmente generoso e ho venduto cassette e cassette di pesce di tutti i tipi e di tutte le taglie. Debbo ringraziare tutti i Santi a Bedda Matri e o Signuruzzu, ma anche Lei, che mi ha aiutato nel momento del bisogno. Ecco, questi sono i soldi che le devo, e questi sono i soldi in più che voglio darle come segno di gratitudine.»

Il Barone sorrise e accennò un inchino.

Il Povero Pescatore trasecolò: un inchino a lui da un Barone?

«Tieni pure i tuoi soldi» lo rassicurò il Cutrera.

Il Povero Pescatore non capiva.

«Ma il prestito?».

«Non mi devi nulla. Sono io che ti ringrazio. Tu mi hai già ripagato».

Il Povero Pescatore era sconcertato: «Mi dica in che modo l’avrei già ripagato? E quando?»

Il Barone si avvicinò e gli mise una mano sulla spalla, in segno di affetto: «Una notte. Di qualche anno fa…»

La Nonna Giovanna finì il suo racconto suscitando in noi un corale sospiro di meraviglia per il lieto fine.

Dopo averci congedato la nonna disse: “E nun finisci ca… a prossima vota cuntinua!” E non termina qua il racconto… alla prossima volta il seguito.

Qualunque vicenda storica, anche quella raccontataci oralmente dai nonni, rivaluta le tradizioni e mette in luce la spontaneità dei detti popolari. Ascoltare le filastrocche e i detti popolari dei nonni, è un modo piacevole per raccogliere preziosi consigli attraverso il passato.

          Salvatore Battaglia

Presidente Accademia delle Prefi

Com. Stam.

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