In molti lasciano le proprie terre convinti che, arrivati a destinazione, la loro vita cambierà. Forse è così; ma la causa non è da ricercare nelle disponibilità che la nostra terra offre. Per non parlare di organizzazione e gestione a livello amministrativo, oppure occupazione. L’unico motivo è che, fuggendo da guerre, fame, povertà e malattie, la loro vita non può non cambiare. L’Italia è comunque un Paese “pacifico”, una nazione “progredita” ed economicamente “sviluppata”. O meglio, questo è quello che si crede prima di partire. Se ascoltassimo gli immigrati giunti ormai da mesi alle nostre porte, potrebbero aver cambiato idea: raccolti in dei centri dove credono di aver perso la libertà, convinti di poter cercare lavoro e potersi sfamare in completa autonomia; stanchi di non essere ascoltati, di non udire risposte alle loro lamentele e i loro disagi; delusi dalla realtà siciliana, anzi italiana (dovrebbe essere europea, se proprio dovessimo specificare). I migranti provenienti da Libia, Egitto, Pakistan, Nigeria e tanti altri Paesi africani e asiatici sono migliaia ogni settimana. Perlomeno, questa l’approssimazione con riferimento a quelli che riescono a sbarcare. Molti perdono la vita lungo la navigazione, spinti in mare da connazionali (questi, spesso, per garantirsi un filo d’aria in più sull’imbarcazione) o stremati dalla stanchezza e dalla fame. Ma i problemi non si fermano qui: la Sicilia adesso deve affrontare il problema “Isis”. Aumentano i dubbi sulla possibilità che il movimento paramilitare insidi, tra le fila dei migranti, anche sue reclute. Come reagire a tutto ciò? La risposta non è facile, ma una cosa è certa: siamo sulla linea di confine tra l’agire per senso di umanità e il tirarci indietro per paura.