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Reclusione dell’anima

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Nel rispolverare, da oltre un decennio in qua, la sua primordiale, nonché unica, capacità di graffiare, Marco Bellocchio non rinuncia a inserire nelle sue precise disamine della società delle lucidissime, feroci visioni personali. Gli errori storici della Chiesa (in alcuni casi perpetuati sotto altre forme), il potere e l’inganno che si tramandano, mutano aspetto, accettano l’esilio volontario o la latitanza come condizione ormai necessaria per poter perseverare nella loro brama di controllo, senza percepire l’ulteriore meschinità alla quale si sono ridotti. Un sistema che merita un silenzioso tramonto troppo a lungo rimandato; o magari il film, infruttuosamente in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia appena conclusasi, invoca semplicemente il più classico (e inevitabile) trionfo del bene sul male. In termini relativi, perlomeno.
Il regista piacentino, anche autore della sceneggiatura, immerge la sua vicenda nella per lui familiare Bobbio. Una lunga premessa secentesca ci mostra le tribolazioni di una giovane monaca, sospettata di avere indotto al suicidio un sacerdote. Il gemello di costui, un fiero soldato (interpretato dal figlio del cineasta, Pier Giorgio), assiste alle fasi finali dell’inquisizione della donna, che subisce l’infausta sorte che le è toccata con disarmante serenità, tra interrogatori pressanti e tuffi in catene. Quattro secoli dopo, nello stesso luogo, vale a dire la massiccia e antica prigione – in svendita – del paese che fu teatro di questi e altri discutibili fatti, un sedicente funzionario ministeriale, in compagnia di un danaroso russo potenziale compratore dell’immobile, smuove qualche pietra in superficie facendo emergere verità non così inimmaginabili. Miserie varie e sotto molti profili anacronistiche (eppur resistenti), legate ai funebri notabili della cittadina (ma i “forestieri” non ne sono immuni), con gli stessi attori della corposa prima parte a raffigurare il decadimento dei cosiddetti pochi eletti e dei loro sotterfugi.
Una rappresentazione che non può non scivolare nel grottesco, occasionalmente divertente persino. Lo sguardo sull’Italietta dei mezzucci, delle superate illusioni di supremazia permane impietoso. A dimostrarlo basterebbe solo il sapido confronto dialogato tra i due (ot)tenebrati “massoni” Roberto Herlitzka e Toni Bertorelli (non a caso già Dracula in Zora la vampira). Perché in effetti un bel risultato è pure una questione di sensibilità attoriale, sfoggiata, per esempio, dalle devote “sorelle” Alba Rohrwacher e Federica Fracassi, dal sospettoso abate Fausto Russo Alesi, dalla paziente suora sotto processo Lidiya Liberman,dal folle Filippo Timi.

Sangue del mio sangue (Italia/Francia/Svizzera, 2015) di Marco Bellocchio con Pier Giorgio Bellocchio, Roberto Herlitzka, Lidiya Liberman, Alba Rohrwacher, Fausto Russo Alesi

di Massimo Arciresi

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KKKKK
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