[dropcap size=big]S[/dropcap]ono due, e non uno, i furgoni avvistati nei pressi del luogo in cui avvenne la strage di Capaci, il giorno prima che l’esplosivo facesse saltare in aria il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta. Lo ha detto in aula il poliziotto Giuseppe De Michele, deponendo in qualità di indagato di reato connesso al nuovo processo per l’attentato, in corso alla Corte d’assise di Caltanissetta e che vede imputati i boss Salvino Madonia, Cosimo Lo Nigro, Giorgio Pizzo, Vittorio Tutino e Lorenzo Tinnirello. Il 26 maggio 1992 De Michele aveva dettato una relazione di servizio a un suo superiore, il sovrintendente Palazzolo, in cui affermava di avere visto, il giorno prima dell’attentato, un furgone bianco in sosta leggermente trasversale sull’autostrada Palermo-Trapani, all’altezza dello svincolo per Capaci e su cui c’erano delle scritte arancioni simili a quelle della Sip. Il poliziotto, inoltre, affermava che accanto al mezzo c’erano due o tre persone in tuta bianca con strisce catarifrangenti. Tra loro vi era un uomo (successivamente identificato in Mariano D’Asaro, poi arrestato), alto circa 1.80 m, con capelli mossi castani e folti baffi, che gli aveva fatto cenno di fermarsi per poi lasciarlo ripartire subito dopo. Non passa nemmeno una settimana e De Michele viene nuovamente convocato alla Questura di Palermo. È il 1 giugno 1992 la data riportata sulla seconda relazione di servizio dell’agente della Stradale, in totale discordia con la precedente. Nella seconda versione De Michele affermava di aver visto, dopo esser uscito dall’autostrada per percorrere via Kennedy, il furgone Fiat Ducato sulla statale che conduce a Capaci, fermo lungo il lato destro della stradina, e di aver notato dieci operai che stavano caricando delle scale sul mezzo. Nessun segnale indicava, però, lavori in corso in quel tratto. L’oggettiva diversità delle due testimonianze viene più volte sottolineata dal pm Dodero, che ne chiede contezza al teste: «Perché è stata redatta in questo modo ed è stata pure firmata?». «Forse non l’ho letta bene» risponde dapprima l’imputato, giustificando all’epoca le modifiche alla prima relazione con il fatto che «il sovrintendente che scriveva non aveva conoscenza dei luoghi e che mal riportava quanto da me riferitogli». Ma la reale motivazione che lo portò a cambiare la propria versione sarebbero state le minacce dell’allora funzionario della Polizia di Stato Gioacchino Genchi. Quest’ultimo, che indagava sulla strage in qualità di perito tecnico, avrebbe convocato De Michele alla caserma Lungaro e lo avrebbe minacciato di riscrivere la testimonianza. «Mi disse “O dimentichi ciò che hai visto o ti pigli una pistola e ti spari. Adesso sparisci e non farti vedere mai più”. Rimasi impietrito. Avevo paura. Fu così che, quando resi la seconda relazione, diedi un’altra versione. Pensai che confermare ciò che avevo scritto nella relazione del 26 maggio mi avrebbe portato magari a essere licenziato, e che quindi la mia carriera in Polizia sarebbe finita.» Non è riuscito però a spiegare perché apportò soltanto delle modifiche, piuttosto che “cancellare” quello che aveva visto, così come gli avrebbe chiesto Genchi, né perché non denunciò il fatto, dal momento che l’amica con cui si trovava con lui quella sera avrebbe potuto confermare la sua versione. Ne parlò solo con il padre e la sorella, ma soltanto 2 anni fa, stando a quanto riferito dal padre, anch’egli ascoltato dalla Corte. «Se lo avessi saputo all’epoca» ha risposto ai pm «potete esser certi che avrei chiamato Genchi, con cui confermo la frequentazione almeno fino al 23 maggio del 1992. Di queste cose mio figlio recentemente mi ha detto di avermene parlato, ma io non lo ricordo.» Ora, però, c’è anche una terza versione: «quella che» assicura «corrisponde a ciò che vidi realmente quella sera.» De Michele stava riaccompagnando a casa un’amica, con la quale aveva trascorso la serata a ballare in una discoteca di Palermo, insieme ad altri amici. «Lungo la corsia di decelerazione dell’autostrada vidi questo furgone bianco, e lì attorno c’erano anche altre persone. Non ricordo se facevano qualcosa. Poi considerate anche che avevo una difficoltà visiva all’epoca, in quanto soffrivo di astigmatismo e ipermetropia. Ricordo che quasi ci andavo a sbattere. Poi, una volta uscito, entrando nello svincolo sempre in direzione Capaci, vidi un altro furgone sulla destra, sempre bianco. Anche questo aveva delle scritte, simili alle altre. Un signore, in tuta bianca, alza la mano per fermare la vettura e poi quasi immediatamente mi lascia passare.» La ricostruzione dei fatti fornita in aula corrisponde a quella resa ai pm della Procura nissena durante un interrogatorio nel dicembre 2013. Ma il teste fa un’altra importante rivelazione. Nel settembre del 2013 viene convocato negli uffici della Dia di Palermo, in viale del Fante, dove un funzionario di polizia e un magistrato (“sui 56-58 anni, brizzolato, forse di Roma”) gli avrebbero chiesto di raccontare di quel 22 maggio 1992, dei furgoni, degli uomini con le tute. Non gli chiesero invece di Genchi. «Forse non lo sapevano.» Di certo i pm di Caltanissetta, Onelio Dodero e Stefano Luciani, non sapevano di tale circostanza, appresa solo in aula. Quel giorno non venne redatto un verbale, almeno così dice di ricordare il poliziotto (che dovrà fornire alla Corte il documento di notifica), affermando però di esser stato registrato. Il mistero di quella convocazione alle “Tre torri” si aggiunge a quello del furgone bianco e agli altri particolari sui quali la Procura nissena dovrà fare luce. Bisognerà, inoltre, fare chiarezza sul perché De Michele abbia aspettato vent’anni per parlare delle minacce che gli avrebbe rivolto Genchi.