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Vincenza Lorusso “Le radici nell’acqua”

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l’infettivologa Vincenza Lorusso racconta la sua avventurosa vita dedicata ai più bisognosi, tra difficoltà, dubbi, amori tormentati e un tragico attentato

Mentre stringe tra le mani un articolo di giornale, Vincenza sogna il suo futuro: lavorare come medico nei Paesi in via di sviluppo, per curare i più poveri, gli ultimi della Terra.
Il sogno diventa realtà e la giovane studentessa di medicina parte senza temere ostacoli, carica di una passione e una dedizione così forti che nemmeno un attentato che ha rischiato di strapparle la vita a ventisette anni, in Guatemala, frena la sua coraggiosa determinazione.
Vincenza si racconta attraverso le sue missioni in giro per il mondo, in Angola, Tanzania, Mozambico, Uganda, Brasile, sempre insieme alla sua piccola Emily.
Dall’infanzia pugliese in una famiglia profondamente legata alla terra e alle tradizioni, spicca il volo con coraggio e risolutezza per realizzare il futuro che immaginava fin da bambina.
Emozioni, soddisfazioni, amori, ma anche inevitabili cadute, fallimenti e sofferenze di una vita senza radici, il tutto impreziosito da un pizzico di ironia che rivela la tridimensionalità di una donna forte e fragile, sempre straordinariamente umana, indiscutibilmente unica.

L’AUTRICEVincenza Lorusso nasce a Gravina in Puglia, il 17/1/67.
Dopo aver conseguito la laurea in Medicina e Chirurgia presso l’Università degli studi di Siena, lavora in Paesi africani (Angola, Tanzania, Mozambico e Uganda) e dell’America Latina (Guatemala e Brasile).
Da 4 anni si occupa di Medicina delle Migrazioni attraverso Emergency e Croce Rossa.
Attualmente, lavora come infettivologa presso il Policlinico Umberto I a Roma.
“Le radici nell’acqua” è il suo primo libro.

ESTRATTI
L’attentato
Successe tutto in un istante, prima che me ne accorgessi, un rumore sordo, un dolore acuto, paralizzante, poi una luce bianca, abbagliante, quasi un fulmine, quindi, il buio. Erano le 13:30 del 22 febbraio 1995.
«I tronchi in mezzo alla strada di solito sono una trappola usata dagli assaltatori per bloccare i veicoli, attaccare i malcapitati e derubarli di quel poco che hanno» disse Julio candidamente, senza pensare che quella potesse essere una trappola anche per noi.
Nessuno diede peso al suo commento, ritenendo improbabile potesse trattarsi davvero di un agguato. Julio ed io, che occupavo il lato passeggero, scendemmo dall’auto per rimuovere il tronco e liberare la strada.
Eliminato l’ostacolo, rientrammo in macchina. Appena chiusi lo sportello sentii un colpo violentissimo alla testa e dei fischi nelle orecchie, mentre la vista si annebbiava e un dolore paralizzante mi impediva di parlare. Per un frangente di secondo, pensai di aver urtato la testa contro lo sportello.
Vincenza! Vincenza!» chiamava, ma non riuscivo a rispondergli. Va tutto bene, avrei voluto dirgli, ho solo urtato mentre chiudevo lo sportello, tuttavia, le parole rimanevano nella mia mente senza che riuscissi a pronunciarle, mentre mi accasciavo sul cruscotto, paralizzata da un dolore atroce che mi impediva di reagire. Intanto, sentivo Paolo insistere con forza «Vincenza, Vincenza!» ma, per quanto mi sforzassi, non riuscivo a rispondergli.
«Cristo, che succede?» chiese Paolo disperato.
«Un balazo, doctor! Uno sparo!» rispose l’autista, mentre correva al riparo «Uno sparo!»
Sentivo queste parole, ma ormai erano soltanto una lontana eco ovattata. Poi, d’un tratto, tutto si fece buio.

Lugarawa – Tanzania
Era l’ora di pranzo quando la donna, con la bimba legata dietro le spalle bussò. La invitai ad entrare. La porta d’ingresso dava direttamente sulla sala da pranzo, sul tavolo c’era del pane caldo appena sfornato da Luty e della pasta già pronta. «Vieni, accomodati pure» la invitai, ma lei, intimidita e silenziosa, rimase sulla porta. Andai in cucina a prendere le pappine che misi in una busta, tornai da lei, le spiegai nel mio maldestro swahili come prepararle e quando somministrarle, l’abbracciai e le augurai buona fortuna. Con gli occhi lucidi, la donna ringraziò e con tutta la sua dignità andò via. Al chiudersi della porta alle spalle, sentii una profonda tristezza, mi voltai a guardare la tavola apparecchiata, seppur in maniera parca (la tovaglia, il pane, la pasta) e piansi amaramente, provando vergogna per quello che avevo, per il privilegio di quanto possedessi; mi sentii in colpa per il cibo che a casa mia non mancava, per il pane e il piatto di pasta che avrei mangiato e che non mangiai, afflitta dagli occhi spenti e dignitosi di quella donna che, con la figlia, pesavano insieme 45 chili.

Mozambico –L’ultimo Miglio
Adoravo viaggiare per le zone rurali di Nampula dove la gente aspettava seduta per terra riparandosi dal sole sotto grandi piante arboree. Le donne erano avvolte nelle fantasiose capulane con le quali legavano sulle spalle i loro bambini, mentre gli uomini erano coperti di vestiti logori, ma sempre dignitosi. Per garantire una certa privacy in occasione della visita medica, improvvisavamo un ambiente protetto creando un angolo tra la macchina ed una casa dove i pazienti potevano spogliarsi. Tronchi d’albero tagliati servivano da panca per i malati e per lo staff che doveva compilare le schede sanitarie. In un villaggio lontano e sperduto, dove non era mai arrivato un medico, visitai una donna di mezza età che concentrava su di sé tutte le mutilazioni possibili e immaginabili della lebbra, che le aveva distrutto gli occhi rendendola cieca e trasformato le mani e i piedi in monconi infetti. La visitai e l’ascoltai a lungo, parlava timidamente senza rimproverare nulla alla vita o alle autorità, rassegnata al suo destino, mentre io ero arrabbiata per la sua devastazione e per essere arrivata troppo tardi per le cure.

Shedrack -Tanzania
“La morte di un bambino malnutrito, la morte per fame è la morte dell’umanità.
È la vergogna del potere e delle politiche mondiali.
È lo spietato prevalere dell’egoismo…
Il fallimento di qualsiasi valore proclamato, ostentato e decantato.
La morte dell’Amore per il prossimo…
Non c’è nulla di più straziante che l’agonia della malnutrizione…
Il senso di frustrazione e impotenza è enorme.
Come il senso di disagio che provo quando a casa trovo sempre qualcosa da mangiare…
Andiamo sulla luna, lanciamo missili spaziali, vestiamo i cani, li vacciniamo…
E non siamo capaci di alimentare ed essere solidali con un bambino che non ha accesso al cibo?
Ma che mondo è il nostro?
Quale il senso delle cose? Della guerra? Della lotta per il potere?
Siamo uomini o siamo mostri?
Non so. Sono confusa, frustrata, triste. Vorrei solo fosse diverso…”

Il bene confuso – L’amore
Trascorremmo una notte indimenticabile in cui fui rapita dal suo sguardo dolce e sognante, dai suoi sussurri, dal suo modo tenero e dolcissimo di fare l’amore. Mi guardava come se fossi una Venere, come se mi amasse da sempre, le luci soffuse della stanza dell’albergo, l’odore di lavanda, tutto in una luce di magia surreale che mi portò oltre la realtà. Fu come se, improvvisamente, l’amore (ma lo avevo mai vissuto per davvero fino ad allora?) prendesse forma e mi avvolgesse in un tessuto di seta e, come in un film, mi ritrovai a vivere l’essenza e la profondità del suo mistero. Ero lì tra le sue braccia come se per tutta la vita avessi anelato a quel momento e a quell’uomo. Affondai le mie radici nella poesia dei suoi baci e nel calore del suo corpo, mentre un senso di pace e protezione mi invadeva, come un bimbo in seno alla madre. Le sue mani mi avvolgevano, mi tenevano stretta e dimenticavo che quella storia aveva in sé il seme della pericolosa fragilità.

Com. Stam.

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