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Erika Maronati – Medico senza frontiere

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Erika Maronati è medico. Vive con il marito e due figli, a Marcello con Casone, paese di poco più di 6.000 abitanti in provincia di Milano.

Ha descritto a Il Giornale L’Ora la situazione che ha dovuto affrontare prima di lasciare la professione.

– Erika come hai maturato la decisione di lasciare la professione?

Decidere di lasciare il mio lavoro dopo 18 anni non è stato facile. Innanzitutto perché era un lavoro che mi piaceva, amavo l’attività di medico e di medico responsabile di RSA. L’RSA è una realtà particolare, lavorare in questo contesto non è semplicemente fare il geriatra, ma è prendersi cura e farsi carico dell’anziano, della sua famiglia, del personale, è organizzare, gestire e tenere relazioni.

Era già qualche tempo che le difficoltà che anno dopo anno incontravo andavano accumulandosi, portandomi ad un certo stato di insofferenza; le difficoltà erano soprattutto legate alla mancanza di “investimenti” che sarebbero stati necessari visto il mutare delle situazioni, della tipologia di ospiti e delle innovazioni tecnico/scientifiche.  Poi è arrivato il covid e non c’è stato più tempo per pensare a nient’altro. Quando le cose in struttura si stavano “normalizzando”, nel senso che le urgenze erano superate, ho pensato che fosse arrivato il momento di decidere cosa volessi fare della mia vita: se essere felice o sempre arrabbiata. Mi è stata d’ispirazione anche la frase di papa Francesco:  «Peggio di questa crisi c’è solo il rischio di sprecarla» e io non volevo sprecarla.

– Da cosa dipende la mancanza di progettualità e il mancato riconoscimento delle professionalità mediche?

Ho chiesto all’azienda cosa avesse intenzione di fare, ovvero se avesse un progetto su come gestire la grave carenza di medici ed infermieri, in modo da garantire anche, e soprattutto, un’adeguata assistenza ai nostri anziani. Non chiedevo un’immediata soluzione, visto che il problema colpisce ogni settore sanitario, ma chiedevo un progetto: un’intenzione, un desiderio, una visione che avesse come fine ultimo l’attenzione doverosa ai nostri anziani ospiti e agli operatori.
Non ho ottenuto una risposta congruente, né una visione né una intenzione che corrispondesse alla mia visione, quindi non potevo che dimettermi o accettare di essere infelice e rassegnata.
Trovo che il mancato riconoscimento del valore della professionalità medica, ma anche infermieristica e di ogni figura presente in struttura, stia in questo: piuttosto che investire in un progetto si è preferito perdere un professionista con esperienza e di un certo valore (che non mi attribuisco io ovviamente), anche e soprattutto sapendo di trovarsi in un momento in cui i professionisti scarseggiano.

Significa che il merito e il valore reale non contano. È come dire che in fondo agli ospiti non cambia nulla se a prendersi cura di loro sia una persona con certe caratteristiche oppure un’altra che ha modalità diverse. Alla fine l’importante è avere la copertura minima delle ore richieste dalla normativa e questo ovviamente va a scapito della qualità reale dell’assistenza.

La cosa più faticosa e deprimente è parlare con persone che minimizzano sempre ogni problema evidenziato, come se il mio scopo fosse quello di disturbare, di denigrare, di rovinare, quando invece ho sempre solamente cercato di trovare la soluzione migliore per i nostri ospiti.

– “Rimettersi in gioco”: cosa farai adesso?

La decisione è stata faticosa anche perché lasciare e cambiare non è facile: lasci qualcosa che conosci e non sai cosa puoi trovare, lasci persone con le quali sei cresciuta, hai costruito qualcosa di buono e valido.  Inoltre si pone il problema di cercare un posto dove lavorare con persone che mi possano dare soddisfazione e che abbiano obiettivi che coincidano con i miei.

Dopo un po’ di meditazione e ispirazione, ho deciso di offrirmi volontaria nel poliambulatorio dell’opera di san Francesco a Milano. Lì tutti i medici sono volontari, si prestano cure mediche alle persone senza assistenza sanitaria e si fanno progetti, perché, come dice la suora-medico che gestisce la struttura, «la Provvidenza ogni tanto bisogna sfidarla».

– Un tuo ricordo, personale o professionale.

Un mio ricordo: posso dire che sono finita in RSA per caso, non avrei mai pensato di fare tale lavoro, eppure col tempo ho imparato ad apprezzarlo, ad amarlo e a capire quanto fosse importante. Ci si prende cura delle persone nell’ultimo tratto della loro vita e si cerca da dar loro assistenza, ma anche un senso, di far percepire l’attenzione che hai nei loro confronti e si creano relazioni. È una cosa che si impara col tempo, sbagliando, aggiustando il tiro, ma soprattutto appassionandosi. In fin dei conti io non posso che lavorare così: con passione. E con me ce n’erano tante di persone con tale passione. Io sono solo più fortunata: ho il coraggio di prendere decisioni (grazie anche al supporto di chi mi vuole bene) e posso permettermi di non dover rincorrere uno stipendio.

Devo inoltre dire che mi hanno commossa le attestazioni di stima di tante persone, compresi alcuni parenti di ospiti, e queste valgono veramente la fatica fatta in questi anni e mi confermano nella mia scelta.

di Roberto Dall’Acqua

Erika Maronati
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