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Mori-Obinu, ascoltati Brusca e Giuffrè: “Pensavamo fosse un uomo dei servizi segreti”

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[dropcap size=big]S[/dropcap]i è svolto in trasferta a Roma il processo d’appello “Mori-Obinu”, nel corso del quale la Procura generale, rappresentata in aula da Pierluigi Patronaggio, ha chiesto di acquisire nuovi documenti. Nella fattispecie: le intercettazioni in carcere del collaboratore di giustizia Flamia e i pizzini dattiloscritti di Provenzano indirizzati a Ilardo, già ritenuti autentici nelle sentenze in abbreviato e nelle quali si dimostra che “l’interlocuzione tra Ilardo e Provenzano avviene anche successivamente ed è costante al periodo di cui parla Flamia”.
Dalle stesse, si evince come l’ex esecutore della famiglia di Bagheria abbia avuto contatti con agenti dei Servizi segreti. L’udienza è quindi proseguita con l’esame di Brusca e le domande del procuratore generale sulla figura di Bellini, ex esponente della ‘ndrangheta vicino all’eversione nera. “Pensammo che fosse un uomo dei Servizi segreti o qualcosa del genere”, spiega. “Inizialmente venne con la scusa di un ‘recupero crediti’ e per avere un appoggio sul territorio. Poi il rapporto con Gioé (il boss di Altofonte ritrovato morto nel carcere di Rebibbia nella notte tra il 28 e il 29 luglio del ‘93, ndr) si allarga al traffico di droga e dopo Capaci su altro.
Lui disse che si potevano colpire i beni dello Stato. Per noi doveva essere qualcuno dei Servizi segreti. Ascoltai alcune sue proposte in casa di Gioé. Si proponeva come tramite con lo Stato per ottenere benefici per i detenuti. Questo discorso lo portammo avanti dopo autorizzazione di Riina”. L’audizione entra poi nelle questioni di merito. “Dopo l’omicidio dell’on. Lima e dopo la strage di Capaci, Riina mi confidò che si erano fatti avanti nuovi referenti politici, tra cui Ciancimino e Dell’Utri. Pur non ritenendoli validi per quelle che erano le sue esigenze, aveva accettato la loro interlocuzione. Successivamente mi disse che il terminale di questi rapporti era l’on. Mancino”. L’ex sindaco di Palermo era “a totale disposizione di Cosa nostra: dagli affari per i lavori pubblici agli aggiustamenti di processi, ma riusciva a dominare secondo le sue idee soltanto Provenzano, mentre non ci riusciva con Riina”. Anche perché diversi erano “i fini dei due boss”. Provenzano “aveva le sue amicizie che usava per i fatti suoi, come per le misure di prevenzione. Spesso agiva senza avvisare altri soggetti di Cosa nostra”. Con le stragi del ’93, i contrasti tra loro erano tali da esserci due veri e propri schieramenti. “Con Provenzano c’erano Spera, Giuffrè, Pietro e Carlo Greco, con l’ala stragista ci eravamo schierati io, Bagarella, Brusca, Messina Denaro, i Graviano, Santapaola, la famiglia di San Lorenzo di Biondino prima e Cinà poi, e altri”. A confermare le diverse criticità fra i due capimafia corleonesi è anche l’ex boss di Caccamo, Giuffré. “Tra l’89 e il ‘90 iniziò un attacco a quelle che erano le fortezze di Provenzano, con l’intento di scalfire il monopolio che si era creato con le imprese locali”. Si parla ancora dei nuovi referenti politici da ricercare all’indomani delle stragi, dopo il fallito appoggio alla Dc e, successivamente, con le elezioni dell’88, al Psi. “In Cosa nostra ci adoperammo tutti per dare una mano a Forza Italia. Dell’Utri era la figura di cui ci si poteva fidare e che potevamo appoggiare”. Aggiunge Giuffré: “Provenzano mi disse ‘Siamo in buone mani, andiamo e puntiamo su questo cavallo”. Infine il colonnello Obinu ha reso dichiarazioni spontanee, per precisare che “il reparto della Prima sezione, con il capitano De Caprio, investigò su l’autoscuola Primavera di Carmelo Amato, con atti già prodotti in primo grado, dove si percepì il fatto che esponenti mafiosi, lì riunitisi, si stavano muovendo per appoggiare Dell’Utri e di questa emergenza notiziammo anche l’autorità giudiziaria delegante”
Matilde Geraci

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