Rubrica

Il falò alla vigilia del Santo Natale… sapori e odori intorno al mio quartiere degli Archi a Ragusa Ibla

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A Vampanignà ra Vigilia ro Santu Natali sapuri e Sciauri a tuornu o ma quartiri ri l’Archi Iusu Quando ero un ragazzino dopo la festa di San Martino nel mio quartiere degli Archi si entrava già nell’atmosfera magica di Natale.

La “Vampanignà” della vigilia era l’obiettivo di ogni rione della mia città e i ragazzini come me si costituivano in una sorta di comitato anche se erano i più grandi che solitamente assumevano il comando e tracciavano le strategie.

Ogni quartiere mirava a realizzare il falò più spettacolare e fino al 24 dicembre quasi nulla trapelava.

Si osservavano i movimenti di altri gruppi di ragazzi, se ne intuivano le mosse preventivamente… ma tutto era segreto.

La legna si recuperava con la questua casa per casa: “signora na runa un po ri ligna pi fari a vamapanignà ?” (signora ci può dare un po’ di legna per fare il falò ?) ma la legna destinata al grande fuoco si rubacchiava anche dai campi.

Si stoccavano enormi quantità di ramaglie di rimonda degli ulivi, di fascine di tralci della vite, legati tra di loro da altri tralci o con il filo di ferro. I Fraschi (ramoscelli secchi) erano facilmente infiammabili ma ardevano per poco.

La vera caccia si dava ai pezzi grossi: “i cippi”. Erano tronchi d’ulivo o d’altre piante per dare struttura e resistenza al grande fuoco. Erano questi che facevano la differenza!

Per strada era sovente incontrare ragazzini che con robuste funi tiravano grossi tronchi per stoccarli insieme all’altra legna.

Il giorno della vigilia intervenivano anche gli adulti e la “festa” cominciava a prendere corpo ed ogni ragazzino diventava protagonista dell’evento.

A Vampanignà prendeva forma già dal mattino…i tronchi al centro e le fascine di fraschi sovrapposte l’una all’altra fino a raggiungere pericolose vette alte anche più di dieci metri.

Quando tutta la legna finiva per essere sistemata, la Vampanignà veniva guardata a vista fino al fatidico momento in cui si appiccicava il fuoco.

Intanto nelle famiglie l’atmosfera si caricava di ora in ora dell’ansia dell’attesa.

La mia cucina era un laboratorio…il camino acceso d’un fuoco scoppiettante.

Farina, impasti, olio bollette nel quale venivano immerse le “cialde” da friggere che si mangiavano ripiene per l’occasione di ricotta fresca zuccherata e magicamente degne di essere chiamate cannoli…

Picciriduzi, allicativi l’ugna, cannoli, a tinchi te… (ragazzini, leccatevi i polpastrelli, cannoli, in quantità…) tutto era straordinariamente colorato e i profumi valicavano l’uscio delle case per mescolarsi con l’odore del muschio che cresceva sui sassi e sulle pareti di tufo, con l’odore dell’olio dei frantoi e con quello dell’inverno umido del territorio Ibleo.

In verità io non ho mai apprezzato più di tanto i dolci…mi piaceva il rito della preparazione. Amavo respirare profondamente l’odore delle spezie usate, muovermi per la cucina sottosopra, osservare la giovane figura di mia madre travagliata e le donne del quartiere degli Archi ad Ibla indaffarate alle quali mancava sempre qualcosa: “un limone, la cannella, due uova” …così il “laboratorio” s’ingrandiva e anche gli ingredienti per i dolci finivano per essere condivisi in una sorta di celebrazione comune dell’evento.

Mi piaceva vedere il via vai delle donne dal forno, l’odore della legna d’ulivo che scoppiettava nel camino e mio padre che selezionava la legna e la stoccava con sapiente maestria…poi armava il fuoco per rendere la fiamma performante ai bisogni del momento.

Quando le ceste si riempivano dei dolci di Natale cominciava l’altra fase del magico rito; mia madre preparava le porzioni, un po’ di tutto, da distribuire a tutti: questi alla nonna, questi alla zia, questi a…tanta altra gente individuata solo col criterio della solidarietà diffusa.

Non c’era persona che potesse dire di non essere stata pensata.

A casa mia si faceva il presepio che, giorno dopo giorno, si arricchiva sempre con l’entrata in scena di qualche personaggio.

Non si compravano palle o luci colorate al supermercato.

Il mio presepio aveva proprio tutto…le “montagne” le costruiva mia madre con le piante secche della vite (cippuni) e le modellava con sacchi di iuta. Il verde era il muschio che cresceva in abbondanza, i personaggi poi li realizzava con la pasta di pane e i vestiti con qualsiasi straccio colorato… in seguito quei pastorelli si persero e furono rimpiazzati da altri più belli e colorati comprati nel nuovo negozio dove vendevano tante cose moderne e meravigliose (per i miei occhi da bambino…) La Standa.

Non esisteva un solo personaggio del presepio uguale all’altro…ognuno aveva la dignità di essere originale. C’era il pastore, il contadino, la raccoglitrice di olive, le pecore, cani, galline…tutti pazientemente realizzati, vestiti e colorati da mia madre. Mancava forse solo il soffio per dargli la vita.

Alle otto della sera si accendeva la Vampanignà e l’effetto era strabiliante…fiamme tanto alte che lambivano le case e spesso anche i cavi della corrente elettrica.

Poi arrivavano i commenti sui falò realizzati dagli altri quartieri e i paragoni si sprecavano: “quello della stazione è il più grande…noo è quello del quartiere dell’Angelo”.

I fuochi resistevano tanto più quanto maggiore era la quantità del legno “nobile” che gli dava vigore e, a tarda sera, la gente si radunava intorno per raccontarsi e per farsi ascoltare. Era il momento in cui si buttavano i carciofi da cuocere nella brace… piccoli piaceri ma grandi emozioni per tutti noi picciriddi (ragazzini).

Prevaleva allora l’odore della resina…e ancora calde i carciofi, a fatica, si aprivano con le mani per estrarre le foglie profumati e ripieni di mollica di pane, prezzemolo pepe nero etc.

Prima che la compagnia si congedasse, ognuno recuperava un po’ della pubblica brace con dei paletti di legno per scaldare la casa e con i “succetti” (scaldini) di rame per dare un po’ di tepore al letto prima di coricarsi.

Se potessi rappresentare con le parole ciò che ancora risiede nei miei ricordi! Se sapessi far rivivere gli attimi di un passato vissuti nell’inconsapevolezza di ciò che poi sarebbe diventato il mondo ai nostri giorni dove è preconfezionato anche lo scambio degli auguri…

Rincorro i miei ricordi nell’odore di cannella e dei mandarini … cerco di afferrarli e di tenerli stretti nella mente…tento di confonderli con il mio presente e di mescolarli insieme. A volte ci riesco anche… ma più frequentemente, la soluzione che produco dal mescolamento, che mi diletto a fare con il mio cervello, risulta instabile. Come olio e acqua…dopo un po’ gli elementi si separano inesorabilmente.

Se potessi muovermi nel tempo lo farei verso il passato…direi alla mia gente seduta intorno alla Vampanignà : questo nostro futuro è un bluff…direi che possedere il superfluo non rende più felici, che gli uomini peggiorano con la ricchezza e che la ricchezza degli uni determina sempre la povertà di altri.

Direi che nel futuro auspicato c’è in agguato un mostro che globalizza i sogni e li mercifica.

Direi alla mia gente intorno al fuoco di non perdersi nella ricerca dell’effimero…c’è più umanità in una zuppa di fagioli condivisa che in tanta nauseante corsa verso l’opulenza, anche così incivilmente ostentata da questa moderna insopportabile sottocultura… ma poi vedo ritornare la mia amata figlia La Giulia che aspetta con entusiasmo il Natale e le feste e capisco che ogni generazione ha il suo amato Natale.

Salvatore Battaglia Presidente Accademia delle Prefi

Com. Stam.

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