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L’Africa e le armi Made in China

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La lontana Cina ha ben piantati i piedi in Africa. La scorsa settimana avevamo avuto modo di discutere delle massicce politiche di investimento portate avanti dalla Repubblica popolare cinese nei Paesi dell’Africa subsahariana, alla perenne ricerca di materie prime e mercati di sbocco per i propri prodotti. Oggi vogliamo appunto soffermarci su uno dei prodotti più di successo dell’export cinese: stiamo parlando delle armi.

Non importa quale sia il calibro o il munizionamento, se siano armi convenzionali, anticarro o antiaeree. La Cina copre ormai da sola il 25% del traffico di armi nel continente, e dal 2010 è divenuta il principale concorrente della Russia nella fornitura di sistemi d’arma complessi.

L’economicità del made in china

Made in China sono perfino nuovi modelli di droni, meno sofisticati ma di gran lunga più economici degli equivalenti forniti dagli Stati Uniti. Per primi Egitto e Nigeria stanno testando i nuovi modelli cinesi. Quelli acquistati dalla Nigeria, in particolare, sono già impegnati nel contrasto alle milizie terroristiche di Boko Haram.

I Paesi africani che oggi utilizzano, in tutto o in parte, armamenti cinesi sono 16. Fra questi, anche Sierra Leone, Congo e Ruanda, ai quali la Cina negli ultimi anni ha fornito armi leggere e anticarro in violazione dell’embargo deciso dall’ONU nel tentativo di smorzare la perenne guerra civile.

vIA L’URSS, DENTRO LA CINA

Uno dei fattori che hanno favorito la posizione della Cina in questo remunerativo mercato riguarda l’ex Unione sovietica. Durante la guerra fredda, Mosca era la principale fornitrice di armi ai Paesi africani che stavano faticosamente cercando l’indipendenza dalle nazioni occidentali. Era questa la fonte di provenienza della maggior parte delle armi presenti nel continente, sia leggere che pesanti. Una parte inferiore, ma comunque non irrilevante, era data dalle forniture statunitensi alle dittature compiacenti e anticomuniste. La parte restante veniva ricavata dall’enorme quantità di materiale che alcune nazioni ex-coloniali avevano lasciato in loco quando se ne erano andate dall’Africa (ad esempio, tutto l’arsenale lasciato dal Portogallo nel Mozambico).

Dopo la fine della guerra fredda, come è immaginabile, parte dei vecchi clienti della Russia sono passati ai prodotti cinesi. E pazienza che siano un po’ meno “sofisticati”. Dopotutto, i ristretti budget dei Paesi subsahariani non sempre possono garantire l’acquisto di merce statunitense, francese, israeliana o italiana.

la “flessibilità” della non interferenza

Un altro elemento che a suo tempo accattivò il favore di questi Stati era la vecchia politica di Pechino della “non interferenza”: in base a questo principio, la Cina non avrebbe in alcun modo condizionato politicamente i Paesi con cui operava e faceva affari. Tuttavia, questo principio è diventato, col tempo, per così dire “flessibile”. Oggi, dopo la costruzione dell’imponente base navale di Gibuti, la Cina ha una base logistica straordinaria nella zona. A cui si aggiungono le migliaia di soldati che negli ultimi anni ha inviato nelle missioni peacekeeping.

Queste missioni costituiscono un eccellente teatro per l’addestramento e il training dei soldati, unitamente al fatto che una presenza militare costante nella zona aiuta a mantenere una vigilanza più salda sui propri investimenti economici. Investimenti che non si limitano ai prestiti e ai programmi di cooperazioni di cui avevamo parlato nell’ultimo articolo.

Tanto per fare un esempio, durante la guerra civile che ha insanguinato il Sudan e il Darfur, la Cina aveva installato un intero stabilimento di armi leggere e munizioni a Khartoum, così da meglio rifornire i combattenti. E tanto per fare un altro esempio, magari più recente, moti osservatori hanno segnalato la presenza di blindati cinesi in Zimbabwe durante il colpo di Stato dello scorso novembre.

Mappa della presenza cinese in Africa
Fonte: “La Stampa”

la cina e la politica di potenza

Il problema maggiore, come abbiamo detto, non riguarda tanto il fatto che la Cina venda delle armi, ma piuttosto che ne venda in una quantità sempre maggiore, a prezzi sempre più concorrenziali. Ed ormai non ci si limita solo a comuni fucili d’assalto, ma a carri armati ed aerei (come il nuovo cacciabombardiere JF-17, già in uso dalla Nigeria e dallo Zimbabwe).Ed è superfluo sottolineare che il portafoglio cinese viene notevolmente gonfiato da questi affari: solo con le armi leggere, il guadagno netto negli ultimi cinque anni sembra sia stato di 1.5 miliardi di dollari.

Questa correlazione fra aumento degli investimenti economici e corrispondente aumento dell’apparato militare cinese in Africa era già stato segnalato l’anno scorso, in un’intervista rilasciata a “La Stampa”, dall’analista dell’ European Council on Foreign Relations Mathieu Duchatel. Forse dovremmo incominciare a considerare queste iniziative di Pechino come il segnale che la Cina non rimarrà ancora per molti anni una potenza “dormiente”.

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